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E’ chiaro ormai che, in Italia, fornire un parere scientifico su un rischio, è diventato, di per sé, un rischio. Come è noto, a fine ottobre 2012, un magistrato italiano ha deciso di condannare sei scienziati esperti in terremoti, a sei anni di carcere, per aver sottovalutato il rischio di terremoto all’Aquila e aver semplicemente rassicurato il pubblico in una conferenza stampa. Secondo la sentenza, molte vite umane si sarebbero potute risparmiare se le famiglie, anziché essere tranquillizzate, fossero state indotte ad allontanarsi dalle loro case. E’evidente che il problema centrale di tutta questa tragica vicenda è quello di tutelare con ogni mezzo le vite umane. Ma a questo punto diventa di fondamentale importanza indicare con chiarezza qual è la divisione di responsabilità tra lo scienziato che esprime un’opinione e l’amministratore che prende una decisione. Altrimenti si correrà il rischio concreto, in futuro, che, per paura di finire in galera, un esperto rifiuterà di esprimere un’opinione, di formulare una previsione o, magari, semplicemente un’ipotesi. Ma la vicenda va analizzata con molta attenzione.

Un primo aspetto di questo dolorosi episodio che merita una riflessione, è l’evidente deresponsabilizzazione di chi, per mestiere, dovrebbe trasformare le valutazioni scientifiche in decisioni operative: cioè i nostri amministratori. Un uomo di scienza che prevede un evento, sia esso un terremoto, un’epidemia, o una precipitazione meteorologica, esprime, per definizione, una probabilità statistica, formulata alla luce dei dati in suo possesso e delle conoscenze scientifiche disponibili in quel momento. Quante probabilità ho che mi venga un infarto se non fumo, se ho una sana alimentazione e se la mia pressione è buona? Pochissime. Ma l’infarto mi può venire lo stesso. E posso comunque decidere di farmi una bella assicurazione per tutelare me e i miei familiari. Così è per le decisioni politiche. Le decisioni politiche sono altra cosa rispetto alle valutazioni che fa la scienza: il sindaco può decidere di spargere il sale sulla strada in previsione di una nevicata anche se sé cosciente che vi è una probabilità residua, sebbene minima, che il sole, quel giorno, spacchi le pietre. Se ha deciso così è perché ritiene che debba prevalere un principio di precauzione. Viceversa (e questo è successo) può decidere di non chiudere le scuole, pur in previsione dell’arrivo di un’importante epidemia d’influenza perché valuta che il panico procurato da questo provvedimento, il disagio per le famiglie, i giorni di studio da recuperare nei mesi successivi siano un prezzo troppo alto da pagare rispetto a qualche giorno di febbre. Le ragioni della scienza non possono essere quelle della politica. Una decisione politica non può essere demandata alla scienza. E l’uomo di scienza, se sbaglia previsione, non può essere punito, perché la probabilità di errore è parte integrante della sua previsione. Ma ormai per noi non è una novità che politici ed amministratori abdichino sistematicamente a favore del tecnico o dello scienziato di turno.

Tuttavia fermare l’analisi a questo punto sarebbe un errore. C’è un secondo problema, assai più importante alla base di quanto è successo. E’più importante perché affonda tenacemente le sue radici nella cultura e nelle convinzioni della maggior parte delle persone: l’opinione diffusa è che la scienza non può e non deve sbagliare, perché la Dea Scienza è infallibile. E se sbagli vi sono, questo è dovuto ai suoi indegni sacerdoti. Perché molta gente la pensa così? E perché questa visione così grossolanamente distorta è diventata addirittura una verità giudiziaria? Innanzitutto perché, in Italia, ancor oggi, il bagaglio culturale di un cittadino medio non prevede la benché minima infarinatura di ragionamento scientifico e dunque, se non si conosce neanche un minimo un territorio, non se ne conoscono neppure i suoi limiti e confini. E poi perché, in fondo, l’idea di una scienza onnipotente che ha contagiato la cultura dominante è stata diffusa proprio da alcuni influenti ambienti scientifici, cioè dai detentori di quello che Foucault definiva biopotere. Questa idea di scienza è molto conveniente perché muove grandi interessi economici, attira l’attenzione mediatica sui suoi grandi sacerdoti e conferisce ad essi un immenso potere. Oggi paghiamo le conseguenze anche della cattiva gestione del biopotere.

In ultimo, ma non per ultimo, voglio accennare ad un’altra ragione di questa pericolosissima sacralizzazione della scienza, che l’ha fatta diventare l’ultimo oracolo, salvo poi a voler gettare nella fossa dei serpenti gli oracoli che sbagliano: una società che ha perso il senso del sacro finisce per sacralizzare la scienza. In fondo, molti anni fa, ce lo ricordava Gaetano Salvemini: una cultura che non ha il senso del sacro è destinata all’arretratezza. E quella dell’Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, crede di coltivare il sacro ma coltiva solo la superstizione. E se lo diceva un grande laico come Salvemini, possiamo davvero crederci.