Exif_JPEG_PICTURENon sempre il corpo ammalato ci invia segnali. A volte, nelle prime fasi della malattia, non percepiamo i sottili cambiamenti che stanno avvenendo all’interno del nostro organismo. Altre volte il nostro corpo, anche gravemente ammalato, darà segni di cedimento solo nelle fasi molto avanzate di malattia. In questi casi non avvertiremo nessun dolore, nessun cedimento funzionale di organi o parti del nostro corpo, la nostra mente continuerà ad essere lucida. Ci sembrerà di essere sani, senza esserlo. La scienza tuttavia ci consente di esplorare il nostro corpo con opportune indagini e di individuare i segni di una malattia prima che le sue conseguenze si manifestino in modo evidente e, magari, irreversibile. Della maggior parte dei nostri organi e delle nostre funzioni conosciamo le strutture e i comportamenti normali e siamo in grado di individuarli e misurarli trasformandoli in immagini o valori numerici. Abbiamo così creato la medicina normativa che ci permette di identificare rapidamente forme o comportamenti che si allontanano, anche di poco, dalla normalità. Un’immagine anomala ad un’ecografia, ad una TAC o ad una risonanza magnetica, un numero troppo alto o troppo basso di globuli bianchi, rossi o piastrine, segni di infiammazione del fegato o di disfunzioni renali e mille altre alterazioni non sfuggiranno al potere della medicina normativa, a patto solo che ci si sottoponga alle indagini più opportune. Le analisi genetiche addirittura ci avvertono della probabilità futura di poter contrarre una determinata malattia.
La medicina normativa possiede un grande potere: quello di decidere dove passa il confine tra salute e malattia: fino a 100 sono normale, dopo 100 inizia la mia malattia. Gli uomini a cui è stato affidato il compito di conficcare i paletti di questo confine hanno nelle loro mani quello che Foucault definiva biopotere. Il biopotere è grande perché non sempre abbiamo parametri oggettivi per poter marcare i confini tra salute e malattia con certezza. In questi casi è giusto che prevalga il criterio di precauzione: più precoce è l’identificazione del potenziale stato di malattia, maggiori saranno le probabilità di prevenire la sua progressione. Ma spesso, in questa zona grigia tra salute e malattia si aggirano e operano personaggi mossi da interessi d’altro genere, come quello economico.
In ogni caso, il biopotere, anche quando esercitato onestamente, genera alcuni paradossi e non pochi problemi ai pazienti e ai loro medici.
La medicina normativa è certamente molto utile perché ci aiuta a prevenire molte malattie e a curarne altre prima che si manifestino in modo irreversibile, ma la salute è qualcosa di molto più complesso e articolato di un semplice numero. E se quel numero non prende corpo e non si identifica in una precisa malattia resta solo quello che è: un segno sulla carta o sullo schermo di un computer. E il medico si deve incaricare di far comprendere al paziente il reale significato di quel numero all’interno della sua esistenza. Ma per farlo capire a lui dobbiamo saperlo prima noi. E se alla medicina questo non è ancora sufficientemente chiaro, come spesso avviene, il paziente deve essere informato con onestà che ci sono domande a cui i medici non sono ancora in grado di dare una risposta.
La medicina normativa ha così generato una nuova malattia sconosciuta alla storia dell’umanità: oggi ci si ammala di numeri. Ho conosciuto diversi pazienti ammalati di numeri, sull’orlo della disperazione solo perché un valore dei loro esami di sangue era al di fuori della norma. La malattia dei numeri spesso si aggrava ancor più perché, dei medici da loro interpellati, alcuni non avevano spiegazioni da fornire, altri sembravano genericamente preoccupati e, anch’essi succubi della malattia dei numeri, cercavano affannosamente un collegamento tra questo numero anomalo ed una qualche malattia. Così una gamma-GT , un’amilasi, un valore di globuli bianchi fuori norma, riescono a generare inguaribili scompensi psichici. E’difficile scardinare un sistema culturale che, dopo aver accuratamente costruito un modello matematico del corpo umano, ha scambiato il modello per il corpo stesso. Così la mappa è diventata il territorio e una macchia sulla pagina della nostra mappa è diventata, inequivocabilmente, un luogo geografico realmente esistente. Il numero fuori dal range di normalità, l’immagine imprevista, sono diventati la malattia.
Far guarire un paziente dalla malattia dei numeri non è impresa facile. L’unico farmaco efficace da somministrare è la consapevolezza che la mappa non è il territorio.
Carla (il nome, come tutti quelli che utilizzo nel Blog, è ovviamente di fantasia) era una mia paziente da almeno dieci anni. Era sieropositiva, così come il marito. Il marito aveva scoperto l’ infezione nel 2002 quando già era sopraggiunto l’AIDS. Aveva anche scoperto in quell’occasione di avere l’epatite C e la cirrosi. Dopo un lungo periodo di ricovero si era comunque ristabilito e tuttora, a distanza di dieci anni le sue condizioni di salute sono soddisfacenti: le terapie impediscono al virus dell’HIV di moltiplicarsi, il suo sistema immunitario si è ripreso e la cirrosi è sotto controllo.
La signora Carla, invece, dieci anni fa, era nella fase iniziale dell’infezione e non aveva ancora bisogno di alcuna terapia. Il virus dell’HIV ha proceduto invero molto lentamente e solo qualche tempo fa ho ritenuto opportuno proporle di iniziare una terapia per bloccarne definitivamente l’avanzata. E qui sono cominciati i problemi. La signora, sempre serena, attiva, sorridente, alla soglia dei quarant’anni è diventata improvvisamente depressa, sofferente, impaurita. Ora aveva davvero l’aspetto della malata. Lei conosceva tutto della sua malattia, avendo vissuto momento per momento quella del marito. E sapeva perfettamente che, se fino al giorno prima di iniziare la terapia avrebbe potuto correre qualche ipotetico rischio di ammalarsi, sotto trattamento, il virus sarebbe stato bloccato e lei avrebbe evitato con certezza tutto il percorso di sofferenza che il marito aveva dovuto affrontare e da cui era uscito, non senza conseguenze irreversibili.
Avevo anche cercato di sceglierle la terapia all’epoca più tollerabile a disposizione: una compressa al giorno che conteneva tre principi attivi. Il suo solo impegno sarebbe stato di assumerla una volta al giorno, sia pure a vita. Il premio era la salute pressoché assicurata. Dopo aver imparato praticamente a memoria tutto il bugiardino del farmaco, aveva pensato bene di avvertire su di sé tutti gli effetti collaterali descritti, anche quelli più rari e improbabili e soprattutto mi raccontava che, se prima non avvertiva nessun sintomo della malattia, ora, almeno una volta al giorno, cioè quando prendeva la compressa, si ricordava della sua condizione. Prima solo le analisi del sangue le dicevano che era malata. Ora la sua mente e il suo corpo glielo ricordavano continuamente.
Vittorio aveva l’epatite B da quando era ragazzo. A cinquant’anni la sua epatite era diventata una cirrosi e c’era un’ulteriore novità: l’ecografia del fegato aveva descritto la comparsa di un nodulo. Nessun dubbio. Ormai si trattava di una cancro-cirrosi. Per fortuna la soluzione arrivò rapidamente con il trapianto di fegato. L’intervento andò benissimo, le terapie erano ben sopportate e negli anni successivi, apparentemente, non vi furono problemi. Apparentemente.
Vittorio diventava sempre più depresso, nervoso, intrattabile. Da quell’infaticabile lavoratore che era, anche nelle fasi peggiori della malattia, era diventato sempre più svogliato, abulico e aveva perso qualsiasi motivazione. Anche la vita familiare cominciava ad incrinarsi. Iniziò persino ad indagare sulla personalità del giovane, morto di incidente stradale, a cui era appartenuto il suo fegato. Pensava che i cambiamenti che stavano avvenendo in lui potessero essere dovuti alla personalità del donatore, penetrata nel suo corpo, per qualche misteriosa ragione, insieme a quel fegato.
La verità è che, in entrambi i casi, i mie due pazienti erano ammalati di malattia senza dolore: L’HIV, allo stadio in cui era la signora Carla non dava alcun sintomo. Così la cancro-cirrosi, nella sua fase iniziale. Certo, i sintomi, gravissimi, sarebbero arrivati a breve in entrambi i casi se la medicina non fosse intervenuta prima del dolore. Ma si era tradotta essa stessa in dolore. Perché le medicine ricordano tutti i giorni che si è malati, mentre molte malattie possono essere dimenticate anche a lungo, pur essendo gravi. E perché a volte, le medicine generano dolore. Magari piccoli fastidi, qualche doloretto di stomaco nel caso della signora, sia pure il semplice dolore dell’ago della flebo nel caso di Vittorio che, oltre alle compresse, doveva trasfondere immunoglobuline ogni venti giorni. Ma ciò basta a fare davvero sentire malata una persona.
Questo non è il caso del paziente con qualche dolorosa malattia reumatica che, se assumerà la terapia giusta, non avrà più dolore o ne avrà molto meno. E’ il caso delle malattie senza dolore, in cui la terapia stessa, apparentemente, è il male. E poi l’inizio della terapia, spesso, nella mente del mio malato, segna inesorabilmente i rintocchi dell’aggravamento.
“ E’ il momento di iniziare il trattamento. I suoi valori immunitari sono ancora buoni, ma non sono più quelli di una volta. Se interveniamo ora blocchiamo per sempre la malattia, con tutte le sue conseguenze dirette ed indirette e non ci pensiamo più.”
Non mi illudo certo di avere entusiasmato il mio paziente con questo discorso ma, ragionevolmente, l’aver messo sotto controllo l’infezione da HIV dovrebbe indurlo a pensare con maggior serenità il proprio futuro. Tuttavia questa è solo una mia pia illusione: il paziente mi guarda con espressione affranta:
“ Dunque ci siamo. Ormai la mia malattia è diventata così grave che siamo arrivati alla terapia. Quale sarà la prossima notizia che mi darà? Che sto per morire?”.
Il dolore della malattia senza dolore si identifica spesso con la sua terapia. O con la vista del medico.
“Come sta dall’ultima volta che ci siamo visti? “
“Dottore, io sto sempre bene. Mi sento male solo tre volte all’anno: quando vengo in visita da lei. Qui tutto mi ricorda che sono malato: l’ospedale gli infermieri che mi fanno i prelievi, lei che mi visita, la paura delle brutte notizie che lei mi potrebbe dare. La prego, mi dia buone notizie, così, quando sarò uscito da questo posto, mi sentirò di nuovo un uomo sano.”
La malattia senza dolore può avere effetti devastanti in quel delicato gioco di equilibri che è il rapporto fra medico e paziente, spesso comparabili all’ingresso di un elefante in una sala da pranzo. Nella malattia senza dolore siamo noi medici con i nostri farmaci, con le analisi che imponiamo, con la nostra sola presenza, a generare disagio, dolore psichico e, a volte, anche fisico. Questo genera ostilità e diffidenza nei nostri confronti. E noi a volte reagiamo con fastidio e impazienza.
E’proprio sul campo della malattia senza dolore che infatti l’alleanza tra medico e paziente rischia continuamente di rompersi. Anche in questi casi ci può aiutare molto provare a vedere il mondo con gli occhi del nostro paziente. Così facendo capiremo che egli non ha affatto torto a identificare noi e le nostre irruzioni nella sua vita con il dolore e la malattia. E anche in questo caso l’unico rimedio è quello di riportarlo al centro della sua storia personale, spiegando in maniera esauriente e tutte le volte che si rendesse necessario cos’è e come si comporta la sua malattia e, soprattutto, come potrebbe dipanarsi all’interno della sua vita. Se il paziente conosce bene la sua malattia, anche se non ne avverte i sintomi, sarà in grado di inquadrarla all’interno del suo progetto di vita, in termini di possibili conseguenze e relativi rimedi. Ma parleremo ancora, e a lungo, dell’importanza di riportare la malattia all’interno della storia personale e nel progetto di vita del paziente.
Mi capita spesso di visitare pazienti subito dopo che qualcuno li ha informati di essere ammalati. L’informazione che hanno ricevuto è spesso laconica: “Lei ha l’epatite”. Può accadere che la prima comunicazione sia data da medici che, essi stessi, non hanno una precisa idea di ciò che significa questa diagnosi, perché non specialisti, o specialisti in diversa disciplina. E’un momento terribile per il paziente, il disorientamento è totale: cosa comporta per me questa malattia? Quanto mi resterà da vivere? Mi ricovereranno? Come cambierà la mia vita? E quella dei miei cari? Quale sarà la cura? Sarà sopportabile? E mille altri interrogativi angosciosi.
In questi casi spesso spiego che uno dei compiti del medico, soprattutto dello specialista, che si presume ne sappia di più, è quello di fornire al paziente tutte le informazioni necessarie per permettergli di orientarsi in questo nuovo territorio nel quale è capitato, sconosciuto fino a quando non se ne traccia una mappa e non se ne dominano i punti cardinali. Cerco di spiegare loro che il vero problema non è quello di trovarsi in un territorio sconosciuto, se si ha la mappa e ci si sa orientare. Il vero problema è, in realtà, non sapere nulla di dove ci si trova. Uno dei compiti fondamentali del medico allora è quello di munire il malato di una mappa del territorio. E questo lo dobbiamo fare spiegando la malattia, in maniera completa e insieme comprensibile, senza stancarci. Anche più volte, perché è esperienza frequente che, al primo colloquio, il paziente sia talmente frastornato da non aver capito assolutamente nulla di quanto, pur con tutto il nostro zelo, abbiamo provato a spiegargli.
Credo che una delle caratteristiche che distingue l’uomo da qualsiasi altra creatura vivente è la sua capacità progettuale. L’uomo è un animale progettuale. A differenza di ogni altro essere vivente, l’uomo possiede la capacità di immaginare il futuro, anche quello più lontano, e agire di conseguenza. La progettualità è un motore sempre in funzione nel cervello dell’uomo e non può essere facilmente spento, perché partecipa della natura degli istinti: è una struttura fondamentale della mente umana e perdere la progettualità, non poter prevedere le nostre azioni in un futuro, sia pure prossimo, genera un insopportabile disagio psichico. Uno degli effetti più devastanti delle malattie è il furto della progettualità: il malato non è più in grado di progettare la propria vita perché il suo futuro non gli è più garantito, egli si sente condannato al Nulla. Sapere cosa comporterà la propria malattia, poterla inserire all’interno della propria esistenza, riprendere a progettare la propria vita, è indispensabile per ridare salute al malato, anche se non gli si può rendere l’assenza di malattia.

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