giacobbeAbbiamo parlato di Prometeo e Chirone, la tecnica e la scienza, l’immortalità e la mortalità. Sono due miti strettamente connessi l’un l’altro, camminano in parallelo per poi toccarsi alla fine, quando Chirone cede la vita a Prometeo. Vi sono altri due miti che sembrano invece non aver nulla a che fare l’uno con l’altro, anche temporalmente, ma la loro relazione è profonda: il mito di Giacobbe e quello del Golem.
Del primo ci parla l’Antico Testamento. Giacobbe, dopo essersi accampato per trascorrere la notte, ingaggiò una misteriosa lotta con un uomo, fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, l’uomo lo colpì all’articolazione del femore, che si slogò, ma Giacobbe continuò a lottare, finché l’uomo gli disse: “lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe, che aveva evidentemente capito con chi aveva a che fare, rispose: “non ti lascerò se non mi avrai benedetto”. L’uomo misterioso gli domandò: “come ti chiami?”. Rispose “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. Giacobbe si disse: “Ho visto Dio a faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva”. (Genesi 32, 24-34). Israele, in ebraico, significa uomo che vide Dio, ma anche uomo che lotta con Dio.
Il mito del Golem, invece, appartiene alla tarda tradizione ebraica, ed è ambientato a Praga, nell’ano 1530. Ne ho parlato, in versione narrativa, in un altro capitolo del Blog. Qui lo presenterò in forma diversa.
Il protagonista è il grande Rabbi Loew, rabbino realmente vissuto, uomo di grande saggezza e tuttora molto amato dalla comunità ebraica praghese. Quelli erano, per gli ebrei praghesi, anni di terribili persecuzioni Qualcuno aveva messo in giro la voce che nel Ghetto si usasse compiere sacrifici umani in occasione delle ricorrenze religiose. Quel che è peggio è che, secondo queste voci, venivano sacrificati bambini cristiani. La vita era diventata impossibile. Nemmeno i bambini ebrei potevano più camminare liberamente per Praga: venivano insultati e minacciati di morte. Bisognava fare qualcosa. Rabbi Loew, dopo aver molto meditato e sofferto, decise un piano. Chiamò i suoi due migliori discepoli, Rabbi Yitzachak e Rabbi Jacob e spiegò loro ciò che avrebbero fatto: “Noi costruiremo l’Essere, il Golem, ed egli ci aiuterà a riportare l’armonia nella nostra Comunità” . Così, il 20 Adar del 1530, a mezzanotte, i tre si incontrarono nella Mikwa, il bagno rituale. Si immersero nell’acqua, pregarono a lungo. Poi scesero sulle rive della Moldava e, con l’argilla del fiume, impastarono un grande corpo umano, che giaceva supino, come un cadavere. Poi i tre Maestri, usando le Sacre Formule, fecero fluire nell’argilla l’aria, l’acqua e il fuoco. Infine Rabbi Loew scrisse sulla fronte del Golem una Parola: Emet, verità. Così il Golem ebbe vita.
Il Golem non poteva parlare. Ma era indenne dalla malattia e dalla morte. Ed era molto forte. Rabbi Lowe aveva generato una fantastica guardia per tutta la Comunità. La notte girava per i vicoli ed aveva sotto controllo tutti gli ingressi. Aveva sventato molti attacchi e scoperto molte terribili macchinazioni: come quella di Hawilicek, un macellaio senza scrupoli che aveva disseppellito la salma di un bambino cattolico, l’aveva nascosta nel fegato di un maiale e stava cercando di introdurla nella casa di un ricco ebreo, suo creditore, per discreditare lui e tutta la comunità, con le conseguenza terribili che possiamo ben immaginare.
Tutta la comunità voleva bene al Golem, ma non bisognava chiedergli nulla che richiedesse garbo e delicatezza, come fare la spesa o sbrigare faccende domestiche: era estremamente goffo e combinava molti guai. I bambini ridevano e le donne si arrabbiavano con lui. Ma lui non se la prendeva. Prima che arrivasse il sabato, lo Shabbat, il Rabbino cancellava dalla sua fronte la prima lettera di Emet, Alef, così da lasciare solo due lettere, Men e Tau: morte. Il Golem così si riposava. Il giorno dopo Loew riscriveva la lettera. Così, per dieci anni, nel Ghetto regnò la pace.
Ma un triste venerdì, Rabbi Loew dimenticò di cancellare la lettera dalla fronte e il Golem, costretto a lavorare durante lo Shabbat, si ribellò con violenza e iniziò a distruggere tutto quello che trovava davanti. Ben presto avrebbe raso al suolo il Ghetto intero se Rabbi Loew non fosse riuscito a cancellare la lettera Alef. Così il Golem, finalmente, si addormentò. Tutti volevano perdonare la svista del rabbino e le intemperanza del Golem, e tornare a disporre di quell’eccezionale guardiano, ma Loew non era di questo parere, convocò i suoi due allievi e fece tornare il Golem un mucchio di argilla.
I due miti rispondono ad un unico, antico, interrogativo: può l’uomo sostituirsi alla divinità ridefinendo le regole che guidano l’universo attorno a lui e dentro di lui? E’lecito lottare contro una forza superiore per imporre un proprio progetto, come ha fatto Giacobbe quella notte? La risposta a rabbi Lowe è: no, se non si possiede la sapienza sufficiente per farlo. La risposta a Giacobbe è: si, se si possiede la sapienza, e la determinazione per farlo. In questo caso è la stessa divinità a riconoscere e a sancire il compito che il saggio si è dato e che, a quel punto, si identificherà, anche agli occhi della divinità, con il suo progetto.
La nostra, oggi, è la cultura del Golem, che si arroga il diritto di interagire, anche pesantemente, con le leggi dell’universo, in nome della propria specifica conoscenza tecnica, a prescindere dalla propria reale competenza per farlo che implica, invece, quell’intelligenza complessiva delle cose, un percorso di saggezza, come quello che aveva intrapreso Giacobbe e il cui simbolo era proprio quella tenda, testimonianza concreta del cammino dell’uomo.
Oggi si sta radicando un pensiero che la dice lunga sulla visione di questo problema: il principio dell’impatto zero. Un progetto, per poter essere accettato come compatibile con l’ambiente in cui andrà realizzato, deve essere a impatto zero, non deve cioè interagire con il sistema circostante. E questo è certamente un principio giusto: dopo tutti i danni che abbiamo fatto al mondo che ci circonda, evitiamo almeno di farne altri.
Questo principio ignora tuttavia l’ipotesi che l’uomo possa mai migliorare il sistema biologico di cui fa parte. Eppure questo, se egli avesse la saggezza sufficiente per farlo, sarebbe in teoria possibile, e qualche volta seppure raramente, è anche avvenuto. Ricordavo prima che, per Bacone, il compito della scienza è quello di adattare la natura ai bisogni dell’uomo. Bacone sottintendeva che, per realizzare questo, l’uomo di scienza deve prima compiere un percorso di saggezza. Deve farsi Giacobbe. Noi questo non l’abbiamo fatto e, per questo, continuiamo a produrre Golem. Chiedere progetti a impatto zero è una strategia prudente. Ma è anche un’ammissione di fallimento.
In medicina, invece, l’impatto zero non esiste. E’un lusso che non ci possiamo permettere: una medicina a impatto zero vuol dire lasciare la malattia alla sua storia naturale. La medicina ha sempre un impatto, in ogni caso riprogetta, su un piano differente rispetto alla natura, il nostro corpo. E la sapienza di Giacobbe è sempre necessaria perché questo impatto abbia il segno meno.
Vi è un’altra simbologia significativa nel mito di Giacobbe: la divinità lascia un segno del suo passaggio. Infatti, durante la lotta, lo ferisce seriamente, e Giacobbe resta zoppo. La tradizione ebraica ricorda questo mito con il divieto, previsto dalle norme di casherut, di cibarsi della carne attraversata da tagli al nervo sciatico. La cultura moderna, invece, se l’è completamente dimenticato. Haim Baharier, matematico e psicanalista ci aiuta a riscriverne il valore simbolico con la sua teoria della claudicanza: la menomazione di Giacobbe non è un suo limite, ma è uno strumento per procedere . In generale, secondo il principio della claudicanza, la malattia è il carburante che ci permette di compiere il nostro percorso. Sono proprio le nostre malattie, i difetti congeniti, le patologie della psiche che ci rendono forti e ci spingono ad affrontare il nostro percorso. Paradossalmente la malattia fa parte della nostra integrità. E’la malattia che ci fa procedere, non l’integrità che, invece, ci conferisce uno stato di quiescenza e di rinuncia alla progettualità. Claudicanza e integrità sono paragonabili ai dubbi e alle certezze: sono i dubbi che ci spingono a conoscere e a progredire intellettualmente, non le certezze. E la malattia è generatrice continua di dubbi. Per Baharier le certezze sono come corazze. Ma “se scegli la corazza sei simile al granchio: lo scheletro che hai come guscio ti lascia molle dentro, e ti mangiano”. Insomma, il claudicante corre più del sano.

 

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