πάθει μάθος, scrive Eschilo nel coro dell’Agamennone: impara dal dolore. Per i Greci il dolore è una grande fonte di insegnamento. Per Eschilo è anche qualcosa di più: è la  strada ineludibile che bisogna percorrere per giungere alla conoscenza.

Che fine ha fatto invece il dolore nella cultura moderna? L’esperienza del dolore è ancora considerata un’esperienza ineluttabile da affrontare, da attraversare, ma anche da  interrogare e da cui trarre un prezioso insegnamento? Basta guardarsi attorno per accorgersi che il soffrire oggi è visto in tutt’altra maniera. L’osservatorio ideale per comprendere come è considerato il dolore nella nostra cultura è il mondo della medicina. La sofferenza in campo medico è qualcosa da negare, da reprimere con tutti i mezzi, fin dal suo primo, timido, apparire. Non parlerò in questa sede di quel dolore atroce, inconsolabile, senza fine  né finalità, che accompagna gravi malattie come il cancro. Quel dolore deve essere lenito con tutte le nostre energie e tutti i mezzi a nostra disposizione, tanto sul piano fisico che su quello psichico. Parlo delle mille esperienze dolorose grandi e piccole che quotidianamente siamo chiamati ad affrontare. Non potrò mai dimenticare, molti anni fa, l’incontro con una giovane donna incinta alle ultime settimane di gravidanza che cercava ostinatamente da me un farmaco che non le facesse avvertire quei tipici doloretti che si intensificano progressivamente e che annunziano l’approssimarsi del lieto evento. Ebbi un bel dire per convincerla che quei dolori, tutto sommato sopportabili senza grande impegno, non dovevano essere repressi, ma piuttosto vissuti con gioia, perché preannunziavano un’esperienza felice della vita, Senza parlare dei rischi che avrebbe fatto correre al feto ingurgitando farmaci.

Sappiamo tutti che oggi è possibile per chiunque acquistare facilmente farmaci antidolorifici, i cosiddetti “farmaci da banco” senza il bisogno della prescrizione del medico. In molti Paesi occidentali questi prodotti possono essere comprati nei supermercati, aggirando anche il  parere del farmacista. Questo è l’indizio più evidente di come è interpretato oggi il dolore: qualcosa da reprimere, sempre e comunque. Senza fermarsi neanche un attimo a interrogarsi sul suo significato.

Il dolore, non c’è dubbio, è un sintomo, come può esserlo una febbre, un giramento di testa, un colpo di tosse, uno starnuto e così via con mille altri esempi. Per la maggior parte di noi la parola sintomo ha una valenza assolutamente negativa,  che colleghiamo a malattie più o meno gravi. Nella migliore delle ipotesi facciamo il conto di quante ore di lavoro, partite di tennis, cene con gli amici o appuntamenti galanti ci farà perdere quella cefalea o quell’influenza. Molti dimenticano che nella sua accezione originale greca, sumptoma voleva innanzitutto dire evento fortuito, accidentale. In antico, non si conferiva a questo termine un valore in positivo o in negativo. Certo, un evento fortuito può essere una disgrazia. Ma anche un’opportunità.

Per i medici il dolore è spesso un prezioso indizio. Il grande cardiologo americano Samuel A. Levine, quando visitava pazienti con un sospetto infarto, chiedeva loro di “mostrare con un dito” il punto dove avvertivano il dolore. Quando il paziente si toccava il petto con la punta del dito egli escludeva subito la diagnosi di infarto o di angina. Se invece di mostrare un punto preciso il paziente stringeva il pugno, o poggiava la mano aperta sul petto parlando al dottore di “tensione, pesantezza o pressione”, la diagnosi di angina o infarto era più che probabile. Nell’antichità, la capacità di leggere il dolore era considerata una dote essenziale dell’arte medica, tanto che gli sciamani consideravano degno di curare una data malattia solo colui che ne aveva sofferto e che, dunque, ne aveva avuto un’esperienza diretta. Di questo resta anche traccia nella tradizione popolare del sud Italia, dove sopravvive il detto “è meglio il patuto che il saputo” , che si potrebbe tradurre liberamente come “sa più chi ha sofferto che chi ha studiato”.

“Tu non arrecherai dolore, tu fuggirai il dolore, tu imparerai dal dolore” è scritto su tre lati della scacchiera magica descritta  da Paolo Maurensig nel suo  La variante di Lunemburg. In questa frase sono riassunti i tre precetti fondamentali dell’uomo di fronte alla sofferenza. Ma se è fin troppo evidente che si debba, nei limiti del possibile, evitare il dolore e soprattutto non lo si debba arrecare ad altri, ci chiediamo: come è possibile imparare dal dolore?

“In sé la parola è meno del pensiero, il pensiero è meno dell’esperienza” scrive Platone nella VII lettera. Nessuno può negare che l’esperienza sia la forma più diretta di conoscenza. Ciò che si apprende attraverso un’esperienza diretta resta scolpito per sempre nella nostra mente. E l’esperienza del dolore è la più intensa e profonda delle esperienze, non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente. Cerchiamo di capirne il perché.

Non è facile comunicare il proprio dolore. Nessuno potrà mai sostituirmi nella mia sofferenza, per quanto io la possa comunicare (sempre ammesso e non concesso che riesca a trovare qualcuno disposto a  condividere i miei patimenti). Questa esperienza è incomunicabile, nella sua essenza, perché il dolore mi isola,  traccia un solco netto fra me e il mondo esterno. Il dolore, lo sappiamo tutti, ci limita. Ma, oltre a limitarci,  ci delimita, ci mette in contatto con la nostra finitudine, ci costringe a vedere i confini (ahimè, spesso angusti…) delle nostre capacità  fisiche e mentali. E tuttavia, facendo questo, ci restituisce un’immagine netta e precisa del nostro io fisico, ma anche psichico. L’uomo è una strana creatura che, fra le altre sue stranezze, ha quella di non riuscire, da solo, a rappresentarsi la propria immagine. Noi ci vediamo e ci riconosciamo attraverso l’immagine di noi che gli altri ci rinviano. Gli altri sono il nostro specchio. Questa regola ha pochissime eccezioni. Forse una sola: l’esperienza del dolore. Facciamo un esempio banale: noi conviviamo con il nostro corpo per i primi decenni senza dare soverchia importanza alla sua efficienza e ai mille compiti che esso quotidianamente assolve. Ma superati i 35-40 anni le cose cambiano; così, al primo mal di schiena, ci accorgiamo per la prima volta quanti infiniti movimenti la nostra colonna dorsale ci consente di fare quotidianamente. E ce ne accorgiamo perché il dolore che ci limita, nello stesso tempo  delimita la nostra colonna vertebrale. Per la prima volta nella nostra vita ci accorgiamo veramente di possedere quel distretto corporeo e la nostra mente è in grado di raffigurarsene l’immagine.

Lo stesso avviene con la nostra mente: l’esperienza del dolore, a un tempo, limita, delimita e configura l’immagine del nostro io a noi stessi in quel meraviglioso percorso interiore che è il percorso di individuazione.

Il dolore non solo limita e delimita, ma ci aiuta a spingerci oltre il limite. Il dolore, sia esso fisico che psichico, spesso costituisce un ostacolo oggettivo, perché può diventare talmente insopportabile da impedirci di portare a termine i nostri progetti. A volte, il vero ostacolo è solo la paura di avvertire il dolore e di non poterlo sopportare. Eppure il dolore ci mette di fronte ad una sfida. Una sfida  a cui è difficile sottrarsi: qual’e la nostra vera capacità di resistere al dolore? Questa domanda spinge l’ atleta a tentare di segnare un nuovo record, sopportando la fatica e la sofferenza, ed è la stessa  domanda che ciascuno di noi si pone e a cui tenta di dare una risposta nelle piccole e grandi sfide quotidiane che la vita ci impone. D’altronde sappiamo bene che la resistenza al dolore è assolutamente soggettiva: il santone indiano che passeggia sui tizzoni ardenti non sente meno dolore rispetto al maldestro cuoco improvvisato che si scotta toccando una pentola bollente: oltre i 45 gradi di temperatura un oggetto diventa insopportabilmente caldo per entrambi, quello che cambia è la loro reazione al dolore. Le vie neurologiche del dolore sono complesse e solo parzialmente conosciute, quello che però sappiamo è che una serie di impulsi condizionanti a partenza da diverse aree del nostro sistema nervoso centrale e periferico hanno la capacità di modificare i segnali dolorifici che giungono al cervello dalla periferia del nostro corpo. In altre parole, la nostra mente ha il potere di intensificare o indebolire tali segnali. La nostra volontà ci consente di allenarci a sopportare il dolore. L’esperienza del dolore ci insegna anche a gestirlo.

C’è chi poi prova a trarre ispirazione dal dolore. E anche in questo caso il dolore ci offre un’opportunità unica perché nel suo isolarci, limitarci, delimitarci e sfidarci, ci pone in una prospettiva completamente nuova, ci impone una visione di noi stessi e del mondo assolutamente diversa da quella che ci deriva dall’esistenza quotidiana. Riuscire ad esprimere, a far parlare il dolore produce spesso autentici capolavori: due esempi per tutti: l’Urlo di Edvard Munch e alcune tra le più belle poesie di Giacomo Leopardi.

12 Risposte to “L’esperienza del dolore”

  1. victoria Says:

    molto filosofico,il seguito?

  2. victoria Says:

    molto filosofico,il seguito?dove voi arrivare?

  3. Raffaele Says:

    bellissimo e istruttivo!

  4. Riccardo Says:

    il dolore insegna cio che dobbiamo fare x noi stessi..se ci riflettiamo sul dolore stesso traiamo la soluzione ai nostri problemi proprio xke nella nostra societa abbiamo messo da parte la nostra parte istintuale che ispira a una nostra conservazione dell’essere quindi il dolore nn viene piu ascoltato e soddisfatto.Il suo scopo e meravigliosamente unico

    • paolomaggi Says:

      Il Suo commento è pienamente condivisibile, interpreta perfettamente lo spirito del mio articolo e centra con esattezza il problema della censura culturale che sta subendo il concetto stesso di dolore nella nostra società. Grazie

  5. Johng891 Says:

    This is one awesome blog post. Keep writing. ddcacaacbdec

  6. Johnk679 Says:

    There is visibly a bundle to realize about this. I assume you made certain nice points in features also. bgdaadbfgaeg

  7. maria Says:

    Dove vuole arrivare c’è scritto già. Vuole farti capire di non vivere il dolore come un’esperienza negativa ma qualcosa per cui puoi imparare da esso. È tramite il dolore che diventi più forte, che riesci ad affrontare cose che non avresti mai pensato di poter affrontare altrimenti. E riesci a conoscere una parte della vita di cui non avevi nemmeno manco mai sospettato fino a prima della sofferenza. Non è solo un testo filosofico… è proprio un insegnamento secondo me.

  8. teresa Says:

    Grazie per questo articolo.

  9. gughi12 Says:

    Molto interessante,,,


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